martedi 17 maggio 2011 – Chiesa di Maria Addolorata in Sant’Andrea Avellino
Fraternamente accolti dal parroco Padre Alberico Candela promotore insieme al S.A.E., abbiamo potuto “gustare” l’Incontro di «Spiritualità Ecumenica» -incentrato su:
«Testimoniare nell’ospitalità» Lc 24,41-
“Cerchiamo ciò che contribuisce alla pace e all’aiuto reciproco” (Rom 14 17-19); “Difendiamo la causa dei perseguitati” (Sal 146, 1-10)
Tanti sono i raggi di Luce che si sono sprigionati dalla Parola di Dio. Padre Alessio ha saputo, con sapiente umiltà, indirizzarli verso la tutta la Comunità dei credenti nella consapevolezza dell’importanza dello studio e della preghiera della Bibbia. Alternando i toni, condidi di una certa dose di semplice ed efficace autoironia, ci ha messi in guardia dalla prassi di estrapolarne segmenti di brani, utili solo ai nostri fini, ma di avere la saggezza di riguardarLa nella sua interezza. Così, ci ha come cullati, utilizzando la la forza e la ricchezza, nascosta nelle pieghe, del Testo Biblico, mettendo in evidenza l’Accoglienza del Padre verso L’Estraneo e Lo Straniero.”Non siamo noi che accogliamo ma è Dio stesso che accoglie le sue creature”.
Padre Alberico, nella presentazione, aveva parlato della difficoltà dell’incontro tra i primi “cristiani”, ancor più attualizzato dalle Letture di questi giorni.. Il prof. Labate ricordava, poi, che solo ad Antiochia i credenti si dichiararono “Cristiani”, seguaci di Cristo.
Distinzione e complemento dei termini “accoglienza e “ospitalità”. Padre Alessio ci ha scossi, richiamandoci a riflettere sulla tiepida partecipazione e conoscenza della Bibbia da parte di coloro che pur dichiarandosi “Cristiani”, in verità esercitano la loro fede in determinati periodi come … Pasqua, Domenica delle Palme… ma che mantengono separati gli spazi della Fede da quelli della Vita di tutti i giorni.
“Padre Alessio”, ieromonaco greco ortodosso.
SAE-Carmelo Labate
Canto finale Dolce sentire
Lettera di San Paolo apostolo ai Romani 14,17-19
Smettiamo dunque di giudicarci gli uni gli altri; decidetevi piuttosto a non porre inciampo sulla via del fratello, né a essere per lui un’occasione di caduta. Io so e sono persuaso nel Signore Gesù che nulla è impuro in sé stesso; però se uno pensa che una cosa è impura, per lui è impura. Ora, se a motivo di un cibo tuo fratello è turbato, tu non cammini più secondo amore. Non perdere, con il tuo cibo, colui per il quale Cristo è morto! Ciò che è bene per voi non sia dunque oggetto di biasimo; perché il regno di Dio non consiste in vivanda né in bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo. Poiché chi serve Cristo in questo, è gradito a Dio e approvato dagli uomini. Cerchiamo dunque di conseguire le cose che contribuiscono alla pace e alla reciproca edificazione.
La questione che l’apostolo pone è l’esortazione alla tolleranza reciproca all’interno della chiesa di Roma, dove persisteva un problema di “convivenza” fra i membri di chiesa. Nelle chiese di allora, infatti, uno dei più comuni conflitti interni era dovuto all’atteggiamento da tenere verso il consumo delle carni provenienti dai sacrifici pagani e le relative questioni di purità rituale. C’era, sia in chi proveniva dal giudaismo sia in chi proveniva dal mondo dei Gentili, una difficoltà di ri-ambientamento.
Paolo definisce “deboli nella fede” quei convertiti al Vangelo che attribuiscono ancora valore salvifico a precetti rituali. Ma nella stessa comunità sono presenti altri già “forti” del “bene della fede” (v. 16); per loro nulla è immondo, impuro in se stesso, perché in Cristo Dio ha reso pura ogni cosa.
E’ debole nella fede chi non è arrivato a un grado di chiarezza tale da considerare le sue pratiche esterne come indifferenti per la vita spirituale (Rom 14:17-18; 1Cor 8:12). Paolo fa notare quanto sia fuori posto colui che, ritenendosi forte nella fede, giudica chi non fa come lui, dimenticando, invece, che Dio l’ha già accolto nella sua grazia. Ed è presunzione condannare colui che Dio accoglie! Costui va accolto con benevolenza, ma non per discuterne le opinioni, non per sottoporlo ad un continuo esame critico. Ciò non riuscirebbe che a turbarlo mentre, invece, la carità lo edificherà (1Cor 8-10). Dunque, deboli e forti nella fede smettano di giudicarsi gli uni gli altri, evitando nella propria condotta quanto può urtare la coscienza dell’altro o portarlo ad agire contro di essa. Il privilegio che si ha (la libertà nella fede) non sia dunque oggetto di biasimo; anzi serva per testimoniare che la libertà cristiana viene usata per la carità fraterna, cioè per una buona armonia fra tutti i credenti.
A questi, cosiddetti “forti nella fede”, Paolo fa una “tirata di orecchi”, e li richiama fraternamente, ma con fermezza. Costoro, infatti, con il loro atteggiamento intransigente, sprezzante, verso quei fratelli che praticano modi diversi, possono creare delle fratture all’interno delle comunità. Dal canto loro i deboli li potranno accusare di usare lo scudo della “libertà nella fede” per sottrarsi a qualsiasi disciplina morale. Agli uni ed agli altri Paolo ricorda che sono stati giustificati, riconciliati con Dio, per mezzo di Cristo, e che “Dio li ha accolti” (v. 3) così come sono, ognuno per quello che era senza distinzione per alcun motivo né per merito personale. Dio quindi ci ha accolti con tutte le nostre differenze, le quali non riguardano l’essenza dell’evangelo.
Come attualizzare questo invito che Paolo fa alla chiesa di Roma?
Oggi, a distanza di secoli, anche se manca l’oggetto specifico del tema della lettera (il cibo impuro), nulla è cambiato nella sostanza. Anzi, se nelle prime comunità cristiane la provenienza dei credenti poteva limitarsi a due settori, giudaico e pagano, oggi le chiese, a qualsiasi confessione appartengano, si sono radicalmente modificate nella loro composizione. Le nostre comunità sono formate da persone con esperienze di fede vissute in altre chiese cristiane. Le nostre comunità civili sono formate anche da gruppi di persone che hanno dovuto lasciare le proprie case, viaggiando e girovagando in territori stranieri. E, in ogni caso, la comunicazione elettronica ci ha reso, oggi, vicini, in un pianeta piccolo e sovraffollato. Fedeli appartenenti alle grandi religioni del mondo hanno portato con sé nuovi credo e nuove culture nelle nostre comunità.
Tutto questo è un dono del Signore, ma è anche una sfida che Egli ci lancia per mettere alla prova la nostra capacità di “praticare la giustizia”; soprattutto ci rilancia la sfida di “essere chiesa insieme”, che non è cosa facile, ma che va realizzata.
Oggi, non ci sono le carni sacrificate agli idoli a creare inciampi, ma ci sono tanti altri elementi significativi all’interno delle nostre stesse chiese. Si pensi alla diversa maniera di pregare, ai testi e ai canti liturgici, all’etica familiare (separazioni, divorzi, convivenze), all’etica personale e/o sociale (procreazione, accompagnamento alla buona morte), alle benedizioni o meno di coppie omosessuali, a strutture e servizi per l’accoglienza, a scelte politiche ed economiche, alle dottrine insegnate, ecc.
Per ognuno di questi temi, sono tante le opinioni divergenti anche all’interno di una stessa chiesa. A volte è urgente saper decidere. Altre bisogna lasciare il tempo di riflettere sulle scelte da fare in base alle nuove sfide e di adattarsi e allenarsi alla diversità. In ogni caso Paolo ci esorta al dovere della mutua tolleranza tra deboli e forti nella fede. Perché nessun cristiano ha diritto di giudicare gli altri se vuole celebrare Dio nell’unità.
Il regno di Dio non consiste in vivanda né in bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo (vv. 16-17). Il Regno di Dio, che con Gesù è già tra noi, non consiste nell’osservanza di questo o quel precetto; ma nel praticare la giustizia, nell’adoperarsi per il bene comune, dei più poveri, dei più deboli; per la pace, consiste nel riconciliarsi con Dio e con la comunità.
Nelle comunità, dove vengono praticati questi tre aspetti, giustizia, pace e gioia al servizio di Cristo, là sarà riconosciuta l’assurdità di scandalizzare un fratello per la sua condotta. La prova che qui sta l’essenza del regno di Dio sulla terra, sta nel fatto che, chi serve Cristo col procurare giustizia, pace, gioia, è gradito a Dio ed approvato dagli uomini (Mt 12:7; 23:23). La legge fondamentale del regno (decalogo e beatitudini) non è di natura cerimoniale, ma morale; e l’ideale umano presentato in Cristo non è ideale ritualistico, ma concretamente storico. Cerchiamo, dunque, le cose che contribuiscono alla pace e alla mutua edificazione. (Carmelo Labate)